Richiami vivi: la fauna selvatica allevata in cattività, cambia la genetica?
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Stefano De Vita
Stefano De Vita in una sessione di inanellamento a scopo scientifico presso un impianto di inanellamento autorizzato ISPRA
Stefano De Vita appassionato ornitologo e di ricerca sul campo. Ha avuto esperienze di allevamento in ambiente captivo di moltissime specie di uccelli autoctoni, esotici e domestici. Insieme alla moglie è stato titolare di un allevamento di fauna selvatica per scopi di ripopolamento e reintroduzione. Ha effettuato studi e ricerche sul comportamento degli uccelli allevati e riprodotti, sviluppando tecniche di alimentazione naturale e metodologie di allevamento estensivo in ambiente captivo naturalizzato. Ha curato progetti di reintroduzione e progettato strutture di allevamento, riproduzione ed ambientamento per la fauna selvatica dai fasianidi agli acquatici, fino a strutture per centri recupero con particolare riferimento ai rapaci. Ha collaborato con centri recupero come esperto nella riabilitazione di uccelli incidentati per poi essere rilasciati in natura.
E’ stato titolare e gestore di esercizi commerciali del settore pet (animali da compagnia) e responsabile di associazioni di allevatori e ornitofili.
Dopo aver letto su un sito web venatorio il documento a firma delle cinque AAVV – FIDC – LIBERACACCIA – ARCICACCIA – ENALCACCIA – ANUU, datato il 5 giugno 2014, in merito alla Procedura d’Infrazione 2014/2006 – Caccia, cattura di uccelli da utilizzare come richiami vivi – Direttiva Uccelli 2009/147/CE – Vs. riferimento Atto di costituzione in mora SG – Greffe (20144) – D/24C4 del 21/02/2014.
Mi sono soffermato su un passaggio che ritengo un po’ “bizzarro e curioso”, faccio riferimento alle Osservazioni ed in particolare alla lettera c) riportando testualmente una parte: <<…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Non senza ignorare la difficoltà di reperire ambiti territoriali idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee con ulteriori aggravi in termini economici. Risulta dunque fuor di luogo il voler equiparare la “cattura” degli uccelli selvatici con l’ ”allevamento” in cattività di soggetti che non sono selvatici>>.
Tralascio l’intero documento e la parte sulla difficoltà di reperire ambiti idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee.
Mi soffermo più su l’altro aspetto, forse i firmatari e/o gli autori del testo in questione forse non sono a conoscenza che in tutto il mondo, compresa l’Italia, esistono una moltitudine di progetti di allevamento e riproduzione in cattività di specie selvatiche anche rare ed a rischio di estinzione, allevamenti atti a conservare e mantenere inalterato il patrimonio genetico di questi animali proprio per finalità di ripopolamento o reintroduzione ai fini della conservazione della specie, che anche se allevata in cattività non subisce alcuna modifica o alterazione genetica. Queste strutture rappresentano delle vere e proprie banche genetiche.
Tutto ciò per mammiferi come alcune specie di felini, oppure il panda gigante, ma anche alcune antilopi o altre specie di ungulati, per non parlare di tante specie di pappagalli, e che dire di una moltitudine di specie di rapaci (avvoltoi, aquile, falconi, gufi, etc.), i corvi imperiali, l’ibis eremita, la cicogna bianca, il pollo sultano, il gobbo rugginoso, il lupo, etc. etc. etc..
Altro esempio i rapaci che in tutto il mondo, ed anche in Italia, vengono allevati e riprodotti in cattività per essere utilizzati nella falconeria, quindi per esempio quelli dalle caratteristiche dell’alto volo come Pellegrini, Girfalchi, Lanari, etc. oppure il basso volo come Astori, Sparvieri, Poiana o Falco di Harris ed altri, che nati in cattività da più generazioni hanno per forza di cose mantenuto il patrimonio genetico inalterato sia nel fenotipo che nel comportamento di caccia.
Secondo quanto riportato nel documento, per analogia, tutti questi progetti sarebbero praticamente fallimentari ed inutili in quanto il prodotto, quale sia la specie, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Ma ci si rende conto di tale affermazione? Forse gli autori non conoscono le varie tecniche di allevamento e riproduzione in cattività? Si seleziona per mantenere il genotipo ed il fenotipo inalterato e quindi si alleva in un certo modo, se si dovesse selezionare per arrivare alla domesticazione si alleverebbe in un altro modo.
L‘allevamento in cattività delle specie selvatiche è da sempre praticato dall’uomo, infatti quest’ultimo è stato sempre affascinato dagli animali che, come ha potuto, ha catturato e tenuto accanto a lui, infatti ha iniziato da tempi immemorabili la domesticazione di alcune specie di animali, tutt’oggi insostituibili per la vita e le attività umane. L’uomo ha iniziato con il lupo ed altri canidi selvatici oggi estinti per allevare e selezionare le innumerevoli razze canine arrivate fino ai giorni nostri. Dal coniglio selvatico abbiamo selezionato tutte le razze di coniglio da carne e quelle ornamentali. Dal piccione selvatico sono state selezionate tantissime razze tra cui il piccione viaggiatore. Dal gallo bankiva originario dell’Asia specie ancora vivente da cui derivano tutte le razze di galline domestiche oggi esistenti al mondo. Dai cinghiali ed altri suidi selvatici siamo arrivati ai maiali domestici e ancora il cavallo che è stato il mezzo di locomozione più straordinario che l’uomo abbia mai avuto. Per non parlare delle pecore, delle capre, dei buoi, di anatre, oche, dalle quali l’uomo in migliaia di anni ha selezionato innumerevoli razze. Che dire poi del canarino selvatico, anche qui da questa specie con un fenotipo ancestrale si è arrivati ad innumerevoli razze di canarini divisi in varietà come i canarini di forma e posizione, i canarini da canto ed i canarini di colore. L’uomo ha tratto vantaggio da questi animali, dai molteplici usi che ne ha fatto: per nutrirsene, per difendersi, per coprirsi dal freddo, per fare utensili, per aiuto nella caccia, per locomozione, per comunicare e per goderne la vicinanza per suo piacere estetico ed interiore.
Il processo di domesticazione di una specie selvatica avviene dopo centinaia e centinaia di generazioni di vita in ambiente captivo, ovviamente parliamo di generazioni nate in cattività. Questo avviene ed è avvenuto per tutte quelle specie domestiche di cui sopra che derivano da progenitori selvatici, infatti l’uomo ha catturato la specie selvatica e costringendola a vivere in ambiente controllato gli ha imposto le proprie regole cercando ovviamente di assecondare tutte le esigenze ambientali e biologiche della specie stessa, in pratica ha iniziato ad ammansire/addomesticare l’animale. Rilevante il fatto che anche nelle specie domestiche più comuni, le più manipolate dall’uomo in questo processo di domesticazione, esistono ancora alcuni comportamenti ancestrali che migliaia di anni di selezione zootecnica non hanno cancellato. Vedi i galli e le galline di tutte le razze che la sera cercano un ricovero (il cosiddetto ‘appollaiamento’) in alto a ricordo di un luogo sicuro per difendersi da predatori, infatti come i galli selvatici i loro corrispettivi domestici sono inetti al volo; e che dire del cane domestico, le oltre 600 razze canine che hanno nel patrimonio genetico alcuni comportamenti tipici dei canidi selvatici, come quello di sporcarsi/rotolarsi sopra le carogne per proteggersi dai parassiti, oppure quello di scavare e ricoprire (quindi nascondere da un altro predatore) un osso o altro pezzetto di cibo, anche questo rappresenta un comportamento indelebile dopo migliaia di anni di selezione a ricordo di una preda cacciata che viene nascosta per poi mangiarla successivamente.
Tralasciando gli animali domestici attuali, risultato di migliaia di anni di selezione zootecnica, veniamo ora ai richiami vivi di cattura, quindi specie selvatiche: uccelli selvatici catturati e costretti a vivere vicino agli esseri umani, ma sempre sotto l’effetto della selezione naturale, devono considerarsi uccelli selvatici adattati alla vita domestica. Le specie selvatiche ammansite/acclimatate/addomesticate sono del tutto identiche ai conspecifici che vivono allo stato libero. Gli uccelli “addomesticati” non possono essere considerati “domestici” , anche quando riescono a riprodursi in cattività.
Forse qualcuno fa confusione con alcuni soggetti mutati, mutazioni che avvengono anche e soprattutto allo stato libero, mutazioni cromatiche del piumaggio che con dovuti accorgimenti ed accoppiamenti mirati in cattività, l’allevatore dopo alcune generazioni riesce a fissare, per es. le varie mutazioni tipo: agata, isabella, lutino, bruno, pastello, etc.. Tutto questo si può vedere anche nelle manifestazioni ornitofile ad avicole che si svolgono in Italia e nel mondo, nelle categoria mutazioni. Per capire più nel dettaglio quanto affermo consiglio di andare a visitare queste manifestazioni dove oltre ai soggetti selvatici mutati si possono ammirare anche le specie cosiddette “nostrani granivori” nella categoria ancestrali/indigeni, in particolare i fringillidi: verdoni, fringuelli, ciuffolotti, crocieri, organetti, verzellini, venturoni, cardellini, fanelli, tutti allevati e riprodotti in purezza da molti anni e che mantengono inalterate da innumerevoli generazioni le caratteristiche genetiche e fenotipiche, compreso il canto. Stessa cosa succede con molte specie cosiddette “nostrani insettivori” nella categoria ancestrali/indigeni e mutati, in particolare i tordi, i merli, i passeri solitari, i codirossoni, gli usignoli, etc..
Un aspetto importante che è influenzato dalla cattività, in particolare per gli uccelli canori, dopo alcune generazioni è la perdita di un canto formato da suoni, tonalità e melodie come quello dei soggetti che vivono allo stato naturale. A tutto questo si può ovviare facendo ascoltare ai giovani il canto registrato di soggetti in natura. Anche se ritengo per esperienza personale che non è certo una nota o melodia imperfetta che non attrae e quindi non stimola l’avvicinamento di un tordo all’appostamento.
Oggi si continua ad allevare tutto e sempre per gli stessi scopi citati poc’anzi, ma uno forse è più importante, anche perché è quello che serve per la continuità delle specie: allevare ai fini della conservazione. Nel mondo esistono tante specie animali allevate e riprodotte in cattività quante quasi ce ne sono in natura. Esiste un patrimonio genetico insostituibile, portato avanti anche da privati spinti dal grande amore per gli animali e con grande sforzo economico, il più delle volte non visti di buon occhio, travisati da una falsa e tendenziosa informazione portata avanti da un certo animalismo, che vuole vedere solo l’aspetto del povero uccellino in gabbia, sbandierando troppe volte il maltrattamento e l’incuria degli animali. Certo, sono consapevole che esiste qualcuno che non mantiene gli animali come si dovrebbe, ma non per questo bisogna criminalizzare una categoria ed una sana attività nel rispetto delle normative, dell’etica e del benessere animale.
E’ risaputo e supportato da infiniti lavori, studi e ricerche provenienti da Organizzazioni Conservazionistiche di tutto il mondo che nell’era distruttiva e consumistica in cui viviamo oltre alla difesa primaria degli habitat, uno dei rimedi, se non in alcuni casi il più importante, per la salvaguardia delle specie è l’allevamento e la riproduzione in cattività delle stesse specie. In alcuni paesi questo è anche incentivato. Nello stesso tempo anche le Normative Internazionali, Comunitarie e Nazionali non lo vietano, al contrario lo prevedono e lo regolamentano:
Convenzione di Washington e successive modifiche e Leggi;
Direttiva Uccelli CEE 79/409 e recenti modifiche 2009/147/CEE concernente la Conservazione degli uccelli selvatici – art. 9;
Direttiva Habitat CEE 92/43 relativa alla Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatica – art. 14, art. 16;
Convenzione di Berna del 19/09/1979 e resa esecutiva con Legge 503/1981 Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente in Europa – art. 7 comma 3, lettera c – art. 9 comma 1 – art. 11 comma 2, lettera a;
Convenzione di Parigi del 18/10/1950 e resa esecutiva con Legge 812/1978 Convenzione internazionale per la protezione degli uccelli – art. 4, art. 9;
Legge Quadro 157/1992 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” art. 17.
Quest’ultima Legge ha recepito integralmente le Direttive CEE e le Convenzioni Internazionali in materia di allevamento in cattività di fauna selvatica. Ma abbiamo anche un Primo Documento Orientativo dell’allora INFS ora ISPRA Vol. 1 sulla Legge 157/92 Indicazioni per gli allevamenti di fauna selvatica indigena per fini amatoriali ed ornamentali.
Va anche ricordato che la Direttiva Uccelli CEE 79/409 e successive modifiche – nello specifico: l’art. 9 paragrafo 1 lettera c, cita; per consentire in condizioni rigidamente controllate ed in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità. Questo ci conferma che questa deroga non nasce per esigenze di carattere prettamente venatorio, anzi al contrario in primis parrebbe per altri interessi quali appunto l’allevamento e riproduzione in cattività e quindi un possibile prelievo in natura per rifornire gli allevatori amatoriali. (tratto da: Raccolta delle Norme Nazionali e Internazionali per la Conservazione della Fauna e degli Habitat – di Mario Spagnesi e Liliana Zambotti – Ministero dell’Ambiente “Servizio Conservazione della Natura” e Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica INFS – Quaderni della Conservazione della Natura n.1 – anno 2001).
Un allevamento organizzato e gestito da persona competente è una fonte di studio e di ricerca continua, per certi aspetti difficilmente osservabile in natura: biologia ed etologia delle specie riprodotte, corteggiamento, canto, tempi riproduttivi, misure e colore delle uova, tempo di schiusa e accrescimento dei pulli, cure parentali, alimentazione e muta, nonché altri aspetti comportamentali. Chiaramente allevando con certi parametri strutturali finalizzati al benessere animale, ma così non potrebbe non essere se si vogliono raggiungere successi riproduttivi.
Le finalità dell’allevamento e della riproduzione in cattività sono anche la didattica, l’educazione ambientale e la protezione. Si possono organizzare corsi di specializzazione per allevatori, per esempio sulle tecniche di alimentazione, come costruire una voliera, come posizionarla, cassette nido e dimensioni, come posizionarle secondo i punti cardinali, il sole e l’altezza, selezionare le specie vegetali preferite per la costruzione dei nidi, le piante più idonee per naturalizzare una voliera, le piante da bacca, la loro messa a dimora, costruzione di stagni e laghetti per allevamento e riproduzione delle anatre selvatiche con particolare riferimento alla vegetazione palustre. La biologia delle specie che si intende allevare, etc. Nonché visite guidate negli allevamenti per avvicinare i giovani a conoscere meglio questa “arte” e comprendere il vero ruolo svolto dagli allevatori per il mantenimento, selezione e conservazione dell’avifauna selvatica. Da non confondere con chi cattura e commercia uccelli illegalmente, in pratica l’uccellagione e il bracconaggio.
Molti animalisti e ambientalisti pensano e sentenziano a sproposito che gli animali in cattività soffrono. Ciò non corrisponde a verità e lo riprova il fatto che in condizioni ottimali (ambiente/alloggio/alimentazione idonea alla specie), un animale psicologicamente e fisicamente sano assolve perfettamente tutte le sue funzioni biologiche e la riproduzione ne è la prova più lampante. Un individuo segue il suo istinto, ovvero i suoi comportamenti innati e si riproduce solo se è in ottimo stato psico-fisico, gli animali seguono i ritmi biologici e l’ambiente circostante che li influenzano per i tempi e i modi dell’accoppiamento. Quindi un soggetto nato in cattività è un soggetto sano sotto tutti i punti di vista e non certo un individuo stressato o maltrattato, quest’ultimo non sarà mai in grado di riprodursi.
Visto quanto sopra esposto, ovvero che in nessun paese comunitario ed internazionale è fatto divieto di detenere ed allevare in cattività specie di uccelli appartenenti alla fauna selvatica, perché mai ci deve essere sempre qualche proclama o azione discriminatoria contro l’allevamento in cattività di specie selvatiche ? Non ci dobbiamo stupire però di questo anche perché ormai da certi fronti animalisti anche l’allevamento delle specie domestiche non è visto di buon occhio.
Di certo questo primo passo del Governo in riferimento ai richiami vivi, tranquillizza tutte quelle persone che utilizzano i richiami vivi sia selvatici che domestici, provenienti da allevamento, vedi appunto i cacciatori di colombacci, di acquatici e di turdidi, e chiude almeno per il momento lo scenario che vedeva un’azione di divieto anche contro l’utilizzo di richiami vivi provenienti da allevamento e quindi nati in cattività. Per quanto riguarda i richiami vivi di cattura sono più che convinto che si apriranno altri scenari.
A questo punto desidero chiedere al Prof. Francesco M. Angelici, zoologo di fama internazionale, conservazionista e ricercatore, cosa ne pensa di questa affermazione: <<…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Non senza ignorare la difficoltà di reperire ambiti territoriali idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee con ulteriori aggravi in termini economici. Risulta dunque fuor di luogo il voler equiparare la “cattura” degli uccelli selvatici con l’ ”allevamento” in cattività di soggetti che non sono selvatici>>.
Risposta del Prof. Angelici
“Mi sento di confermare in toto quanto affermato dall’amico Stefano De Vita, che ha toccato e sviluppato esaurientemente tutti gli aspetti del tema in questione. Naturalmente, non solo i soggetti allevati in cattività appartenenti alle varie specie, hanno le medesime caratteristiche genotipiche e fenotipiche dei soggetti presenti in natura, ma altresì possono essere più efficacemente controllati e ‘selezionati’ in senso naturale, cioè lasciando libera espressione del processo di adattamento e selezione naturale. Prova ne è, come è stato già ricordato, che moltissime specie rare e in via di estinzione vengono attualmente allevate in cattività, in strutture attrezzate e specialistiche, per far si che il loro numero possa aumentare e per una successiva reintroduzione in libertà. Moltissime specie quasi estinte in natura, è stato possibile salvarle dall’estinzione, solo ed esclusivamente con la riproduzione ex situ. Si potrebbero fare innumerevoli esempi, ma basti pensare al bisonte europeo Bison bonasus, al condor della California Gymnogyps californianus, o al furetto dai piedi neri Mustela nigripes, o anche, per restare a noi più vicini, al cervo sardo Cervus elaphus corsicanus.
L’esito statisticamente molto positivo, di queste operazioni, dimostra senza dubbio la bontà e l’efficacia di tali azioni conservazionistiche sulla fauna. Mi sento di poter confermare, dunque, senza alcun dubbio, che nel caso di uccelli da richiamo, sia di gran lunga preferibile poter disporre di soggetti allevati in cattività, ovviamente mantenendo sempre il tipo ancestrale, ed escludendo qualsiasi possibile mutazione che si possa manifestare nello stock riproduttivo. L’unica possibilità che si può eventualmente mantenere aperta, è il possibile accesso, in caso di necessità (evento comunque assai raro in specie diffuse ed abbondanti) a qualche soggetto di cattura, se il patrimonio genetico diventasse troppo poco variabile, se, per es. i soggetti fossero troppo soggetti ad accoppiamento parentale ovvero ad inbreeding. Data però la diffusione di tali allevamenti, soprattutto all’estero, ritengo si tratti di un’eventualità solo teorica in quanto assai remota.
Concludo con l’auspicio che vengano autorizzati e attrezzati allevamenti captivi idonei alle specie oggetto, considerando che tali strutture sono facilmente realizzabili in tutto il territorio nazionale con costi contenuti, a patto che siano seguite e controllate continuamente da personale specializzato, preventivamente formato e preparato”.
La stessa cosa la chiedo a Cristiano Papeschi dottore in Medicina Veterinaria e Specializzato in Tecnologia e Patologia delle specie Avicole, del Coniglio e della Selvaggina”. Cosa ne pensa di questa affermazione: <<…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale. Non senza ignorare la difficoltà di reperire ambiti territoriali idonei all’impianto per la riproduzione in cattività di specie così eterogenee con ulteriori aggravi in termini economici. Risulta dunque fuor di luogo il voler equiparare la “cattura” degli uccelli selvatici con l’ ”allevamento” in cattività di soggetti che non sono selvatici>>.
Risposta del Dott. Papeschi
“Non entro nel merito del contesto dell’intero documento ma mi limito a puntualizzare un piccolo e semplice dettaglio contenuto all’interno dell’affermazione sulla quale mi è stato posto l’interrogativo. In riferimento alla seguente frase “…….mai l’allevamento in cattività il cui prodotto, quale sia la specie, come è ormai dato acquisito per tutta la selvaggina, non può essere mai uguale, per caratteristiche genetiche, ai soggetti nati e cresciuti allo stato naturale”, mi soffermo sulla questione delle caratteristiche genetiche in relazione al “prodotto”. Mi permetto di tirare in ballo il cosiddetto “Triangolo della vita di Walther”, concetto ben noto a chiunque si occupi di zootecnia. Il “prodotto”, se vogliamo definire così un animale, è il risultato di tre fattori fondamentali: la genetica, che costituirebbe idealmente la base del sopracitato triangolo, l’alimentazione e l’ambiente in forma dei lati del triangolo stesso. Se avessimo due soggetti accomunati dalla stessa base genetica, caratteristica oggettiva e dimostrabile in laboratorio con mezzi altrettanto oggettivi, il prodotto finale, e quindi il triangolo stesso con la sua forma geometrica e la sua area, varierebbe in funzione della lunghezza degli altri due lati e dell’angolo che questi vengono a formare con la base che, come abbiamo già detto, rimane di lunghezza invariata.
L’alimentazione e l’ambiente sono quei fattori che determinano l’estrinsecarsi delle qualità genetiche di un determinato potenziale pertanto mantenendo costante una determinata base genetica la differenza sul prodotto finale sarebbe data dalle altre due variabili. In poche parole se ipoteticamente avessi due fratelli gemelli e, sempre per ipotesi, uno lo mandassi a studiare ad esempio in Francia e lo nutrissi con cibi fritti e grassi a fronte di una vita sedentaria e l’altro lo mandassi a studiare in Inghilterra e lo sottoponessi ad esercizio fisico e ad una dieta sana avrei come risultato che uno parlerebbe inglese e sarebbe magro mentre l’altro si esprimerebbe in francese e sarebbe obeso, ma la base genetica rimarrebbe comunque la stessa.
Posso essere d’accordo che, come prodotto finale, ci sia una certa differenza tra un animale di allevamento e un animale di cattura, pur non entrando nel merito di quale sia migliore o peggiore in quanto bisognerebbe prima definire le caratteristiche dell’allevamento ed il tipo di soggetto che si intende ottenere in funzione degli scopi per i quali viene selezionato, ma le caratteristiche genetiche sono ben altra cosa. Se io ipoteticamente, e rimango nel campo della fantasia, al momento della schiusa di una nidiata prendessi un pullo dal nido e lo allevassi in cattività mentre l’altro lo lasciassi con la madre per fargli prendere il volo e godere della vita libera e ricatturassi poi quello stesso soggetto per confrontarlo con il fratello cresciuto in ambiente confinato, avrei comunque due animali con la stessa base genetica. Affinché l’ambiente possa cambiare le caratteristiche genetiche di un organismo necessitano tempi molto lunghi, non certo riferibili alla durata della vita di un singolo soggetto. Pertanto non riesco a comprendere appieno l’affermazione di cui sopra…
Stefano De Vita
28.06.2014